Deal is done. A quattro anni dal referendum, il Regno Unito ha infine divorziato dall’Unione Europea, siglando in extremis il tanto sospirato Deal che salvaguardia le relazioni commerciali bilaterali tra i due Paesi, evitando l’introduzione di barriere tariffarie per le merci oggetto di scambi.
La notizia del raggiungimento di un “Agreement in principle” resa nota alla vigilia di Natale ha fatto tirare un sospiro di sollievo alle aziende agroalimentari di tutta Europa, e a casa nostra, soprattutto al mondo del vino che vede nell’Uk il suo terzo più importante mercato di sbocco, dopo la Germania e gli Stati Uniti. A prescindere da quest’accordo, il Regno Unito, è comunque divenuto dal primo gennaio un Paese terzo rispetto all’Unione Europea e come tale non più appartenente al mercato unico e all’unione doganale dell’UE, ponendo fine alla libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali tra i due Paesi.
Quali sarebbero stati i rischi di un NO DEAL
Dal punto di vista degli scambi commerciali, uno scenario di Hard Brexit avrebbe inferto un colpo durissimo alle esportazioni nazionali, facendo saltare, in una prospettiva più generale, tutti gli attuali equilibri tra domanda e offerta nel mercato comunitario.
Il ripristino dei dazi e dei controlli alle frontiere, aggravato dall’onere di nuove certificazioni per le aziende e dall’inevitabile deprezzamento della sterlina avrebbe infatti reso meno competitivi i prodotti nazionali e comunitari, determinando un affondo delle spedizioni oltremanica di cui è difficile quantificare la portata. Per l’agroalimentare italiano sarebbero stati a rischio circa 3,4 miliardi di euro di fatturato all’anno, generati soprattutto da vino, riso, formaggio, ortofrutta e olio d’oliva, a fronte di complessivi 41 miliardi di esportazioni agroalimentari Ue verso Londra. La Gran Bretagna è sempre stata infatti un mercato di destinazione importantissimo per i partner europei. Come ha evidenziato il Presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti il 20% dell’intera produzione ortofrutticola olandese e circa il 40% delle esportazioni complessive dell’Irlanda, soprattutto carni bovine e pollame, sono destinate al mercato britannico, come anche le spedizioni oltremanica di zucchero proveniente dalla Francia che ammontano annualmente a un quantitativo tra le 300 e 400 mila tonnellate. Di fronte a queste cifre è evidente che il fallimento delle trattative, con il ritorno di dazi e contingenti, avrebbe determinato una condizione di forte instabilità estesa a tutti i mercati agricoli.
A tremare in Italia sono state soprattutto le cantine, già messe a dura prova dalle conseguenze della pandemia e sulle quali incombe anche la minaccia statunitense di futuri di dazi di natura ritorsiva in relazione alla vicenda della digital tax sui giganti del web. Ma in fibrillazione è stato anche il mondo delle indicazioni geografiche e di qualità ( DOP e IGP) che senza poter più contare sulla tutela giuridica legata al marchio di riconoscimento comunitario, avrebbe rischiato di subire la concorrenza sleale dei prodotti di imitazione inglesi e di Paesi extracomunitari.
Cosa cambia per l’export del made in Italy e quali le possibili criticità
L’accordo sulla Brexit ha scongiurato dunque l’applicazione di dazi e contingenti sulle merci oggetto di scambi commerciali, ma a partire da gennaio diviene comunque più complicato sotto il profilo documentale e dei controlli esportare sul mercato britannico. In primo luogo per beneficiare di quanto previsto dall’accordo le imprese dovranno dimostrare che i propri prodotti rispettino completamente le regole sull’origine delle merci ( l’assenza di dazi riguarda infatti esclusivamente i prodotti la cui origine ricade in uno dei paesi membri dell’ Ue o in Uk) . In secondo luogo, con l’uscita della Gran Bretagna dall’unione doganale, non potranno più applicarsi le norme doganali comunitarie quali, tra le principali, il Codice doganale dell’UE, determinando un aggravio di oneri burocratici e non solo per le imprese esportatrici e importatrici. Secondo le cifre fornite dal governo di Londra e citate dallo stesso Giansanti, le importazioni di merci dalla UE richiederanno la presentazione di 215 milioni di dichiarazioni doganali, circa 600 mila al giorno.
Fortunatamente per i vini e gli spumanti è saltato l’obbligo di presentare certificati di importazione che prevedono anche lo svolgimento di un test di laboratorio. L’ adempimento che sarebbe dovuto scattare dal 1 luglio del 2021 pare al momento scongiurato, in favore di una semplice autocertificazione da parte del produttore. Una buona notizia che si aggiunge, come ha dichiarato Paolo Castelletti segretario generale di Unione Italiana Vini, anche a quella dell’approvazione di un periodo transitorio di due anni per la nuova etichettatura, al riconoscimento delle produzioni biologiche di entrambe le parti e all’inserimento dell’Oiv- Organizzazione internazionale della vigna e del vino come riferimento per le pratiche enologiche. Dal primo gennaio, infatti, il Regno Unito è anche rientrato nell’Oiv, da cui si era invece ritirato nel 2005, diventandone il 48esimo Paese membro.
Certo è che al di là dell’ottimo risultato raggiunto dai negoziati specie per il comparto vinicolo, il commercio tra le due sponde della Manica sarà in ogni caso destinato a cambiare, in funzione del nuovo status di Paese terzo che il Regno Unito ha a tutti gli effetti acquisito a partire da gnnaio di quest’anno.
Il divorzio dall’Europa ha inesorabilmente cambiato gli equilibri mondiali ed è da mettere in preventivo un aumento della concorrenza ai nostri prodotti per gli accordi commerciali bilaterali che il Regno Unito, a seguito del recesso dalla Ue, sottoscriverà con altri player. In questo senso un’intesa è già stata perfezionata con il Canada e sono in corso trattative con gli Stati Uniti.
Il mercato inglese per il vino italiano
Con una spesa annua in prodotti enologici di 4,4 miliardi di euro, la Gran Bretagna è uno dei maggiori big spender mondiali del vino, secondo solo agli Stati Uniti. L’Italia rappresenta per Londra il primo fornitore a volume, con 2,6 milioni di ettolitri totali: 2/3 delle bollicine importate e un quarto dei vini fermi confezionati proveng
ono infatti dalle cantine nazionali.
Dal lato dell’export italiano, la Gran Bretagna rappresenta, secondo dati UIV, la terza destinazione assoluta per i vini tricolore, con un valore di poco meno di 800 milioni di euro e un peso sul totale che raggiunge il 12% . A fare la parte del leone è il segmento della spumantistica che tr
a Prosecco e altre bollicine arriva a un fatturato di 400 miliardi di euro, più della metà del totale. Un protagonismo abbastanza recente, quello delle bollicine italiane, dovuto all’impennata di richieste di Prosecco degli ultimi 6 anni che ha surclassato nel giro di un lustro i rossi e detronizzato i bianchi.
Il mercato britannico, come sottolinea ancora l’osservatorio sul vino di UIV, assume quindi i connotati di un mercato non solo strategico ma addirittura vitale per alcune tipologie enologiche come il già citato Prosecco e il Pinot grigio delle Venezie, che generano oltremanica rispettivamente il 31% e il 24% del loro fatturato all’export, ma anche i vini siciliani, sia bianchi che rossi, con quote verso Londra superiori all’11% sul totale esportato nel mondo. Si aggira al 10% il peso del Regno Unito per gli spumanti senza denominazione e per i rossi piemontesi a denominazione. Più contenute (circa il 6-7%), nonostante il grande amore degli inglesi per la Toscana, le quote dei grandi rossi di questa regione, che sono invece più esposti verso gli Usa e in Germania.